Gaspare Migliore, il viaggiatore

testo critico di Barbara Martusciello

La Storia e la Critica dell'Arte ci hanno insegnato quanto sia fondamentale l'obiettività e una certa distanza riflessiva per poter analizzare al meglio le opere prodotte da un autore e il suo linguaggio... L'esercizio virtuoso della ricostruzione documentata e dell'analisi passa quindi per tale pratica inizialmente più controllata che, naturalmente, si può e si deve affiancare a un secondo approccio più partecipe, scaldato - per così dire - da quel tanto di emozione e pathos che fa, del resto, parte della riflessione di ogni studioso che si confronti con un percorso inventivo e con un artista. Ammetto pertanto, immediatamente, che la mia disamina è più che coinvolta perché Gaspare Migliore è stato un mio docente: uno dei migliori. Al Liceo Artistico che ho frequentato - intenzionata a entrare il più profondamente possibile nelle tecniche e nei processi del fare arte oltre che dentro il suo lessico che già più di ogni altra cosa mi interessava -, egli ha saputo trasporre le sue qualità umane a quelle maieutiche riuscendo a svelare molti meccanismi alla base delle creatività. È stato un maestro sensibile, trascinante e pieno di vitalità che ha anche insegnato a guardare e a chiederci, come studenti, i perché di ogni scelta e ricerca sia personale che rispetto all'opera che stavamo realizzando o a quelle altrui in esame.
Molte cose di lui non approfondii, schivo com'era rispetto al suo lavoro d'artista che non condivise con la sua classe, evidentemente considerando non adatto al suo ruolo quel tanto di personalismo e autocelebrazione che altri suoi colleghi portarono con disinvoltura a scuola. Ma la sua lezione la condussi con me, in seguito, nel mio percorso formativo universitario; qualcosa ancora riemerse successivamente, quando ho iniziato a fare i miei primi passi nella Critica d'arte... Ci siamo incontrati molti decenni dopo, io e il mio ex professore, grazie a quelle coincidenze che qualcuno chiamerebbe fato ma non c'è stato abbastanza tempo per un sovvertimento dei ruoli tipico di quando un allievo è cresciuto e il maestro si confronta con lui alla pari, da professionista a professionista, e portando su di sé specificità specialistiche differenti. Una promessa è una promessa e quando assicurai che avrei avuto piacere di approfondire la sua storia e la sua opera ero sincera. Lo faccio in quest'occasione, pertanto, dolendomi che la sua presenza fisica manchi all'appello e alle mie domande ma certa che la mia firma a questo testo lo avrebbe inorgoglito. Almeno, è questo che mi piace pensare...
Gaspare Migliore è stato un irregolare: come artista - s'intende - per la sua curiosità di saggiare stili pittorici e grafici differenti e per una quasi totale indifferenza al Sistema dell'Arte.
La sua formazione è stata, invece, regolarissima: ha studiato prima all'Istituto Statale d'Arte di Roma con Marcello Marcozzi, Alberto Ziveri e Piero Sadun, l'artista della materia e della luce che Gaspare porterà nella sua pittura; si è poi diplomato all'Accademia di Belle Arti di Via Ripetta avendo avuto tra gli insegnanti nuovamente Alberto Ziveri e anche Renato Guttuso e Mino Maccari. All'impianto strutturale solido, al cromatismo sicuro dell'esponente della Scuola Romana, che a lungo lo ha seguito nel suo incedere espressivo, si è aggiunto un tratto tagliente e schietto tipico dell'artista di Bagheria e del toscanaccio Maccari. In particolare, degli ultimi due porta nell'incisione e nella grafica la forza del disegno ed è forse da Sadun che prende e modifica quel segno che Cesare Brandi paragona a "quei fili di ragno che volteggiano nell'aria di autunno per le strade di campagna, troppo leggeri per posarsi resistenti e invisibili...".
Dal 1976 fino al 2006 Gaspare Migliore ha insegnato discipline artistiche nei Licei ed Istituti d'arte della capitale parallelamente portando avanti la sua pittura, partecipando a Concorsi ed esponendo: prima del 1974, anno del prestigioso Premio Bianca Bocchi dell'Accademia di San Luca di Roma, che vince, partecipa a un altro premio, quello di pittura Camera di Commercio di Roma, che nuovamente vince. Siamo nel 1968; nel 1969 ha una Borsa di studio per la Pittura CATEL, mentre inaugura la sua prima mostra: una collettiva alla galleria A55 di Via delle Carrozze a Roma.
Sono, questi, anni caldi non solo politicamente ma anche culturalmente. Gaspare Migliore partecipa a questo rinnovamento epocale con una passione ideologica ed etica che è appartenuta a gran parte della sua generazione e che in lui è evidente in molta della sua produzione. Opere come la serie Gerusalemme (tecniche miste, dim. variabili, 2005), o come la tavola senza titolo (tecnica mista: ad olio con collage 60x43) a questa stessa serie ascrivibile, citano il capolavoro di Pablo Picasso Guernica, realizzato, come sappiamo, dopo il bombardamento aereo, durante la guerra civile spagnola, dell'omonima città il 26 aprile 1937 da parte della Legione Condor, il corpo volontario di esponenti della Luftwaffe tedesca. Per contestualizzare questo lavoro dell'artista di Malaga, si racconta una sua reazione alla domanda "è lei che ha fatto questo?", che gli fece, di fronte a una fotografia di Guernica, l'ambasciatore tedesco Otto Abetz, in visita al suo studio, e a cui Picasso, lapidario, rispose: "No, l'avete fatto voi". Questo aneddoto rafforza la trasformazione di Guernica in emblema di tutte le barbarie umane, della protervia del potere di ogni tempo e della cieca violenza contro popoli inermi; e sembra riattualizzarsi, purtroppo, ogni qualvolta nascano nuove guerre, invasioni, ingiustizie, tensioni politiche ed economiche... È il motivo per il quale - come ci diceva il professor Migliore ai tempi del liceo - la grande arte è universale ed eterna: perché contiene riflessioni e valori che si rinnovano sempre, risultando per ciò perennemente odierni. Così, la sua visione di Gerusalemme è filtrata dalla lente della composizione del genio spagnolo, onorato, del resto, pure nei più evidenti bozzetti della serie Omaggio a Picasso (tutti pastello olio su carta del 2005).
Di lui, queste opere di Gaspare Migliore accolgono la lezione, rimandando concetti differenti pur se simili nella tensione emotiva e nell'indignazione civile. Che ritroviamo in altri lavori dello stesso anno, il 2005: nel più simbolico Archeologia in guerra (2005), un pastello a olio su carta molto colorato e composto da sovrapposizioni compositive; in La guerra continua, un altro pastello ad olio su carta, dove la raffigurazione di una bottiglia di Coca Cola gronda colore rosso, eloquente riferimento al sangue e al coinvolgimento del colosso americano (che, se avessimo dei dubbi, è simboleggiato dall'aquila e dalla bandiera); anche Madre a Bagdad fa simile riferimento, e si accende di toni espressionistici confermando una drammaticità per nulla compiacente. Come non loè Sabra e Chatila... Tutte opere e bozzetti dove la figurazione sembra lasciarsi andare a una più piena libertà creativa, in un abbraccio accogliente con l'astrazione e giungendo a un interessante ibridazione. In Uomo imprigionato, pastello ad olio su carta pure del 2005, la sequenza angosciosa abbisogna, evidentemente, di tornare alla figurazione che riemerge più perentoria e, in questo caso, quasi cinematografica. Più teatrale è, invece, una delle incisioni sul tema della Morte di Franco dove troviamo personaggi severi emergere dal buio così come fa il cavallo di picassiana memoria. Cavallo che si ripresenta, ma affrancato da Picasso e in debito, qui, con certi monumenti equestri, in Cavallo verde dove la tensione sale e si fa tragedia - è datato, non per coincidenza, 1968 - fino a ricordare la grande Opera e nuovamente il teatro o, nel caso di Pinelli, del 1969, la pellicola e la narrazione a metà strada tra cinema e comix.
Nel linguaggio di Gaspare Migliore, oltre alla predilezione per tematiche socio-politiche, alla pratica della citazione - sulla quale ritorneremo anche più avanti - e alla propensione per l'edificazione di un ponte tra figurazione a astrazione - come abbiamo sin qui visto -, si affianca l'uso della stratificazione e della sovrapposizione di cui abbiamo accennato e che emerge in molta parte del suo procedere rendendolo più avventuroso e, a mio avviso, interessante per il suo rimando al flash-back filmico e alla Fotografia. In particolare, all'effetto del riflesso e alla sovraimpressione a cui sembrano rimandare alcune sue opere più convincenti, come l'olio su tavola titolato, non a caso, Autoritratto con riflesso, o come Studio di bagno in cui si attiva un'ambiguità del riflesso negli specchi...; o nella piccola carta (tecnica mista, 1973) Riflesso; o, infine, nell'olio su tela Riflesso e Trasparenze Ziveri IV (1969) che si distacca dagli altri per evanescenza segnica e cromatica.
Una produzione che rientra in quest'ottica è legata a una sua esperienza di viaggio americano. Negli anni Settanta, Gaspare ha dimorato a New York, la città delle vetrine, degli schermi, dei cartelloni stradali, degli accumuli, dello sfolgorio luminoso. È in questa città che è stato pensato lo Studio su interno bus, davvero molto bello, essenziale, con il suo non-finito scarnificato; e qui è nato NYC Bus, olio su tela (pure del 1971) e Vaporetto NYC - Ziveri IV, costruiti entrambi sull'indicata scelta linguistica più fotografica: tanto chiaramente che, nel secondo caso - quello di Vaporetto NYC - Ziveri IV - ciò è verificabile in uno scatto dell'epoca dal quale Gaspare dev'essere partito per realizzare l'opera pittorica. Pure Autunno Trasparenze e Riflessi (1971) è ascrivibile a questa visione. Un'incisione del 1973, Soldato, gioca anch'esso su tale principio che riconvoca - come, diversamente, la carta Feticcio, 1978 -la sola sovraimpressione: la sagoma del profilo del militare accoglie, infatti, una serie di altri elementi, come in un puzzle dove le tessere, pur non combaciando, rendono l'idea della composizione originaria. Il piccolo olio su tela (50 x 50 cm) Fotografo e Leone (1979) e un'altra incisione, Senza Titolo 285x230 mm (1974), sembrano congegnate come una sovraimpressione; in particolare, l'incisione contiene una serie di elementi che rammentano oltre che la sovraimpressione, anche il riflesso, affastellandosi all'interno di un riquadro-specchio o schermo dove si mostrano, quasi a dichiarare il linguaggio e le procedure dell'arte. Indicherei questo lavoro in particolare tra parentesi: legandolo a quelle considerazioni sui postulati dell'arte, su uno specifico che si interroga su se stesso e sui tanti studi simili che hanno caratterizzato la fase sperimentale dell'Arte degli anni Sessanta e Settanta. E torniamo quindi alla citazione, caratteristica della ricerca del nostro artista alla quale affianca l'adeguamento del riferimento di partenza a un repertorio personale e attuale. Così, egli gioca con i maestri del passato, come abbiamo visto fare con Picasso e come ravvisiamo nell'opera Michele Angelo (1985): una donna (che potrebbe essere in posizione seduta) intravista da una crepa, probabilmente un idea di affresco sul muro che si è in parte staccato; questo personaggio muliebre è inquadrato da lontano, così come da lontano - perché dipinta in alto - possiamo vedere dal vero la poderosa Sibilla orientale, la libica, affrescata sulla volta della Sistina nel 1512 circa dal grandissimo artista aretino e spunto per questa moderna versione.
Un aggancio a Piero della Francesca, alla sublime Pala di Brera (o Pala Montefeltro), tempera e olio su tavola databile del 1472 circa e conservata a Milano, nella Pinacoteca di Brera, rileviamo nell'olio su tela Ombra su Ombra (1985). Nella storica Sacra Conversazione con la Madonna con il Bambino, sei santi, quattro angeli e il donatore, il duca Federico da Montefeltro, vediamo, nella nicchia, dalla cima dell'architettonica conchiglia-semi-cupola, pendere il celebre uovo. La simbologia della conchiglia come nuova Venere (la Madonna e Madre) e dell'uovo come indicatore del dogma della Vergine ma anche Uovo cosmico, creazione, nascita e rinascita sembra chiamata in giudizio e allo stesso tempo stravolta dalla visione laica di Gaspare Migliore. L'uovo c'è, ma è in una cornice, sorta di porta cieca, che accoglie anche altri elementi, ma nuovi rispetto al capolavoro di Piero. Mancano i personaggi umani e divini e solo un'ombra accenna una possibile presenza... Una conchiglia in primo piano, in un riquadro avulso dal resto della composizione, pare un'eco, ma molto lontana, della simbologia di Piero che quasi è negata e direi annegata in una realtà che è solo territorio dell'arte. Nuovamente ecco l'arte che parla di se stessa, come nell'opera precedentemente citata (Senza Titolo, acquaforte, 1974) e qui richiama un'atmosfera surreale che ritroviamo in molte altre opere di Gaspare (in Io sono bella, nella versione matita su cara, 1977; o in Conchiglia che ritorna in primo piano, con lo sfondo marino, in un olio su carta ma anche nell'olio su tela Finestra e conchiglia, 1985).
La quotidianità non è solo osservata ma vissuta e restituita, pur se spesso è trasfigurata: il quadro citato, per esempio, unisce dati strettamente connessi alla sua biografia; infatti, la Finestra è quella della palazzina di fronte alla sua casa a Roma, che più volte ritorna con il suo panorama, e la conchiglia si collega al suo profondo amore per il mare: Gaspare Migliore ama la barca a vela, i viaggi solitari nel Mediterraneo, che ritrae in opere diverse; il mare è anche un dato letterario, si lega a Joseph Conrad ed Ernest Hemingway, autori a cui è idealmente legato così come lo è, diversamente, a Dante. L'incontro con il sommo poeta avverrà nel 1984, data della realizzazione dell'incisione sul Decimo Canto del Paradiso: un'acquaforte e acquatinta con dirottamenti utopistici che sarà pubblicata nella monumentale collana in tre volumi dedicata all'Alighieri.
Gaspare Migliore è talora giudice della realtà che tratta: certamente lo è in Gerusalemme e nelle opere più politiche...; altre volte, una vita apparentemente quotidiana si relaziona alla Storia non solo dell'Arte, e in questo rapporto egli prende una posizione mediana, quella di chi, appunto, scruta...: come nel pastello su carta Senza Titolo, degli anni Novanta. Qui, alla scomposizione cubisteggiante del volto del marinaio affianca quelle della nave, con i suoi oggetti della navigazione, trattati come nel più lirico astrattismo. Nel simbolico Figura femminile del 1986 si lascia andare, invece, a una maggiore immaginazione. In questa tecnica mista su carta si vede la donna svelare delle radici - le sue personali, quelle della sua categoria femminile, o entrambe? - e auto-inquadrarsi (o auto-sorreggersi) in forma di cornice. Nel suo innestarsi con un arbusto o un più possente albero, richiama il Surrealismo di Paul Delvaux, un po' certi simbolismi del precedente Odilon Redon e, tanto per sancire le infinite possibilità del melting pot culturale - a lui sempre caro e indicato come importante bagaglio dello studente e del futuro artista e studioso -, richiamando certe metafore alla David Lynch.
Ed ecco Ofelia, in particolare lo Studio che la inquadra nell'acqua. La morte della giovane donna shakespeariana rimanda non solo al rapporto con l'Amleto ma inevitabilmente alle raffigurazioni a cui l'Arte ha dato vita. Pensiamo ai Preraffaelliti: non tanto alle varie versioni di John William Waterhouse o di Arthur Hughes, ma a una in particolare, quella del 1852 realizzata da John Everett Millais, che ci ha consegnato una delle Ofelia più belle ed eternate.
Gaspare Migliore prende questi riferimenti, che ben conosce, e li vìola, li stropiccia, avvicinandosi forse più a quel rilievo in bronzo creato nel 1876 da Antoine Auguste Préault che riconsegna un'Ofelia annegata contorta e drammatica. Uno sguardo all'Arte e uno alla realtà della cronaca ed ecco che l'Ofelia di Gaspare Migliore si approssima a pasticciacci brutti più adiacenti a un'umanissima realtà che non alle Ophelia sensuali, eleganti, struggenti di Preraffaelliti o d'un artista pompier come Alexandre Cabanel... Questo continuo gioco di rimandi è possibile trovarlo in ognuna delle opere di Gaspare Migliore che, rammento, teneva molto, con noi studenti, alla conoscenza del passato che, diceva - vado a braccio - sono le nostre radici, il nostro "padre" e la nostra "madre", che "solo una volta maturi si possono uccidere".
Un lascito che ha schiuso noi studenti al viaggio della vita e una consapevolezza che ha dato a lui la chiave per aprirsi a uno stile tutto suo, anche nel palesarsi come disomogeneo, talvolta, ma dove la partecipazione emotiva e lacerti biografici hanno sempre arricchito e infiammato la sua messa a fuoco: onesta sino ad apparire ed essere disarmata. "Nessuna paura", sembra dire e dirci con l'ultima sua grande opera. Si rifà ad Andrea Mantegna e al suo capolavoro del Cinquecento, quel Compianto sul Cristo Morto che vede il Cristo, sdraiato sulla pietra dell'unzione, semicoperta dal sudario, attorniato dai dolenti, e personificante allo stesso tempo la morte di un uomo e di un dio; la novità è nell'ardita, rivoluzionaria scelta prospettica che produsse e ancora provoca un inedito effetto emotivo; nell'olio su tela che ne ripete l'assetto, il Cristo è solo, ha alle spalle un'immagine strana che, del resto, rientra nelle scelte consuete del nostro artista, affascinato dal Surrealismo e da quel lato metafisico e metaforico della realtà. Questo suo povero cristo è in primo piano, al di qua di uno schermo-finestrino dove vediamo due viaggiatori seduti intenti in una conversazione; un altro è in piedi, un po' gli somiglia, quasi fosse un abbozzo di autoritratto... Sembra alla ricerca di un posto a sedere ma più probabilmente si è alzato per trovare un suo posto altrove.
"Nessuna paura", sembra ripeterci, come a tranquillizzare, con se stesso, gli osservatori di questo suo quadro: un'opera-testamento che funziona anche se non finito perché incompiuto.
È ispirata a una poesia di Giorgio Caproni, Il congedo del viaggiatore cerimonioso. Mentre dal finestrino di fronte, nell'altro lato del treno, si intravedono al di là case immerse nella notte, in una quotidianità resa malinconica dai colori del buio appena acceso da flebili luci, di fronte a noi osservatori c'è il Cristo disteso. In mezzo, come in un interregno, o un breve, inevitabile passaggio nell'organizzazione delle cose, la scena si dipana: sembra anch'essa svolgersi nella quotidianità. Ma è solo apparenza. Il congedo sarà vicino, Gaspare qui già lo sapeva...: la sua messa in scena, così come la poesia di Caproni, ce lo consegnano come qualcosa di doloroso, fatale ma, anche, tranquillizzante e in qualche modo familiare.

"Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
(...)
sicuri segni mi dicono,
da quanto m'è giunto all'orecchio
di questi luoghi, ch'io
vi dovrò presto lasciare.
(...)
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l'ottima compagnia.
(...)
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Scendo. Buon proseguimento."

Il congedo del viaggiatore cerimonioso, Giorgio Caproni, estratto

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